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saggi e fabule

Fiori Nebula
Penelope Agata Zumbo
William Brown, Appunti sui rituali di cambio di sesso della popolazione Idraì, 

Idraì è il termine con cui questa popolazione si definisce, o sicuramente la parola che più utilizzano per riferirsi a loro stessi, di cui non sono ancora riuscito a definire il senso. Si presentano vestiti di tele di colori sgargianti pigmentate naturalmente e ornamenti di metallo di colorazione ramata sul corpo. Le donne indossano fiori molto leggeri, come piume, nelle trecce. La differenza tra maschile e femminile e lo scambio che può avvenire tra i due sessi, come ruolo e identità sociali, è il polo d’interesse della mia ricerca. Gli Idraì sembrano non aver mai avuto contatti con i popoli d’Occidente, eppure, nonostante vivano in una piccola isola, due loro pescatori conoscono l’inglese e mi stanno aiutando nelle traduzioni. La loro lingua è popolata da accenti complessi, mai sentiti nemmeno in Africa, ma cercherò di riportare il più fedelmente possibile quel che vedo e sento. 

 

William Brown, il 15 dicembre 1930

Verso l’avvento delle stagioni delle piogge, che noi definiremmo inverno, anche se qui le temperature rimangono miti, alcuni giovani della popolazione vengono condotti dagli anziani, in un luogo specifico della foresta a nord dell’isola, lontani dalla loro famiglia. 

Qui, con dei canti flautofonici, vengono indotti a un sonno rituale in un luogo per loro sacro. Non sono riuscito a vedere meglio perché il rito avviene nel mistero e la mia osservazione diretta è stata respinta. So soltanto che gli adolescenti sembrano uscirne diversi, vestiti con paramenti del sesso a loro opposto. Gli Indraì mi facevano cenno a una pianta sacra il cui fiore cambia colore in quella specifica occasione. Non so se si tratta di un mito o un animismo vegetale ma i miei tentativi di avvicinarmi di più sono stati respinti con forza. Dicono che gli adolescenti coinvolti rinascono, io non sono riuscito a vedere alcun cambiamento corporale, sembra che il rituale ridefinisce il sesso sociale di queste persone. Ancora prive di spiegazioni appaiono le origini di questo rituale estremo e interessante ai nostri occhi. Quali sono le motivazioni sociali di un capovolgimento dei ruoli sessuali? Cercherò di capire meglio tutto nei prossimi giorni e parlerò con gli anziani del villaggio, anche se vi è agitazione per la mia presenza.

 

Mia madre me l’aveva detto da bambina: io appartenevo all’albero dei fiori Nebula, ma non capivo cosa intendesse. 

Ci raggiunse la pioggia alla nostra tredicesima stagione della fioritura. Una notte un Ilià con volto coperto da maschera bussò alla nostra capanna. Mi chiese cosa mi sentissi, se stessi bene, se sentissi qualcosa oltre il mio corpo attuale. Gli raccontai dei miei sogni coi capelli lunghi e intrecciati, di un petto diverso dal mio, di vestiti belli come il sole. Mi chiese se in quei sogni mi sentissi me. Risposi sinceramente anche se avevo paura. Mi chiese se conoscevo la possibilità di essere come nel sogno grazie al fiore Nebula. Avevo visto mio cugino diventare sé, liberarsi, e dopo quella notte aveva cominciato a sorridere come una donna. Gli dissi che avevo paura. Mi strinse le mani e salutò la mia famiglia.

Passò un’altra stagione della fioritura. I sogni non smettevano e cominciai a desiderare le bellezze di mia sorella. Stavo male per non potermi liberare anche io, la paura aveva lasciato posto al desiderio di libertà. 

Una notte uscii per cercare gli Ilià1 Ilià titolo onorario per gli anziani che si occupano del supporto mentale., allontanandomi da casa verso il Giuchiò2 Giuchiò termine della terra Idraì per indicare lo spazio sacro nel cuore della foresta.. La foresta alla fine di Idraì3 Idraì nome dell’isola di questa popolazione e non il nome della popolazione stessa come sostiene l’antropologo William Brown. era immensa e popolata, mi sentivo seguita. Cominciai a chiamare gli Ilià, ma non accadeva nulla. Non sapevo come raggiungere l’albero dei fiori Nebula, continuavo a vagare nel buio. Una mano, piccola e maschile, mi sfiorò. Avvenne così che chiusi gli occhi per andare a dormire e non li riaprì più. 

Avvertivo solo scricchiolii nell’anima, e un ritmo serpentino che percorreva il corpo come un profumo mai sentito, interrompersi per rinascere ancora. Tu dormivi al mio fianco, e anche se non ci conoscevamo, avevi sul cuore le mie stesse ombre, i semi dormienti di una falena.

I colori cambiavano su di noi e tutto sembrava muoversi. 

«Dove siamo?» chiesi in tutto quel buio colorato.

«Sei nel sogno del rito».

«Ma io non ero nel rito».

«Ti ho sentita e ti ho toccata».

«Grazie, mi chiamo…» Non sapevo più come mi chiamavo, anche se avrei voluto presentarmi. Il nome precedente non era più il mio, si era dissolto. La sensazione di me era diversa già dal momento in cui avevo chiuso gli occhi. Non si vedeva nulla oltre i colori, ma a volte vedevo noi dall’esterno, dormienti alle pendici degli alberi e io vicino a questo ragazzo che mi aveva aiutata a entrare. Eppure quando avevo corso nella foresta non c’era nessuno, nulla. Sentii che sorrideva anche se non lo vedevo. 

«Non so nemmeno io il mio nome ma è normale, il sogno ci darà il nostro nome e anche noi stessi. Non ti hanno spiegatə gli Ilià?». Nel buio in movimento gli raccontai della mia paura, e mi disse che anche lui l’aveva provata così una stagione fa. Aveva paura di ascoltarsi, e di trovarsi solo. Gli chiesi cosa aveva fatto passare questa paura «La gioia d’immaginarmi maschile». Era la mia stessa sensazione, ma al contrario. Gli raccontai dei miei sogni in cui ero io, sentii la sua commozione anche se non lo vedevo. Mi raccontò che suo padre aveva molta paura del rituale, e che questo in qualche modo lo aveva fatto riflettere. Non lo aveva rallentato, ma sentiva che quella libertà poteva essere reale anche se non veniva capita dalla persona che più gli voleva bene. 

Gli raccontai di mia sorella, di come stavo bene con lei, di come mi sentissi così vicina ai suoi gesti. Mia madre non aveva mai detto nulla sulla visita degli Ilià, ma il suo abbraccio esprimeva tutto quello che a parole non aveva la forza di dire. Raccontai che quello mi aveva fatto provare ancora più paura. Lui mi riportò con le sue parole al momento pieno di mistero che stavamo vivendo, ma cosa stavamo vivendo? Cosa dovevamo fare? Il buio dentro noi si muoveva come una radice, lenta nel profondo dell’anima si apriva in colori mai visti. Era questo fiorire? Non c’era mai silenzio, ed è per questo che non sentivo paura, eravamo uniti a tutto. C’erano dei canti che non appartenevano a nessuna lingua, tintinnii che si richiamavano in un’eco dolce. E il rumore leggero di un vento che sposta le foglie. Mi sentivo aria anche io, sconfinata. 

«Io non lo so cosa dobbiamo fare. Forse parlare tra noi può farci bene».

«Si, forse ci avvicinerà alla luce» risposi emozionata.

«Non ti preoccupare, anche se ci sveglieremo continueremo ad immaginarci, a crescere»

«Immaginarci? Crescere? Tu come pensi che saremo dopo questa notte?» Chiesi ma la risposta tardò qualche minuto. Sentivo liquido, umidità nel buio. I canti si alternavano al fruscio degli alberi. E nell’aria anche la percezione di noi sembrava muoverci. Mi raccontò emozionato di sognare un corpo piatto nel petto e virile, ma anche soprattutto un corpo più libero. «Più libero da cosa?» chiesi. «Dalla sensazione di non essere ancora me». Era il mio stesso dolore. Immaginavo completamente invisibile se non avessi continuato a liberarmi. Ma in quel buio, io potevo intravedere la possibilità di essere me stessa. “Me stessa”, già dirmi così mi faceva sorridere. «È bello sentirti sorridere, cosa senti?» mi chiese titubante.

«Sono felice di essere nel sogno, tutto cambierà. Ma non penso che il mio corpo era sbagliato prima, era sbagliato forse che io non sentissi al di là della paura degli altri, il suo vero suono. Hai detto ‘crescere’, hai ragione. Iniziamo a crescere oggi.»

I colori ondeggiavano fortissimi nel buio. Sentii che avevo detto qualcosa che era più simile a un abbraccio che a una frase. Abbracciare qualcosa che era anche più grande di me, abbracciare la libertà. Ci ringraziammo a vicenda. 

«Pensi che ci crederanno dopo che saremo svegli? Crederanno che siamo abbastanza Kiaiì4 Kiaiì termine che definisce le persone Tras* nella lingua Idraì, è il nome dei fiori nebula ed è sinonimo di liberə.?» chiesi, pensando a mia madre, all’espressione del suo volto nel vedermi per la prima volta.

«Penso che non dovrebbe preoccuparci. Solo noi possiamo dire cos’è abbastanza per essere noi. Abbiamo un suono nostro, giusto? Se è nostro è solo nostro, abbiamo tutte le libertà per esprimerlo, lo hai detto anche tu. Nessuno ci può dire se il nostro crescere è vero, soltanto noi».

Ondeggiava tutto in quel buio, come se le voci dei canti e le foglie si fossero unite ai colori. Le nostre risposte facevano indietreggiare l’ombra in quel sonno. I bagliori di qualcosa di nuovo sfumavano nelle cromie. Vedevo attraverso le luci che i sogni diventavano come più vicini, sentivo i capelli più lunghi, il seno rigonfio diventare un celeste terso, e un pube nuovo chiaro come il sole neonato dell’alba. Sentivo che il corpo assorbiva quei desideri, li faceva linfa di sé, nella sua radice più profonda da cui provenivano, era un continuo ritornare a me stessa. Piano piano il buio si dissolse, e il dolore venne assorbito dalla terra. I canti si fecero più nitidi e le foglie immobili.

«Ci stiamo svegliando, siamo più leggeri».

«Grazie di essere stata con me. Io sono Teuì5 Teuì nome di persona, significa fuoco dell’autodeterminazione., ora mi conosco, penso».

«Grazie a te. Io sono Maliù6Maliù nome di persona, significa iride del femminile.».

Aprimmo gli occhi. Attorno a noi, tra gli alberi colmi di fiori, filtrava l’alba, la nostra consapevolezza fioriva con il tutto. Scegliemmo i nostri abiti, i decori che sentivamo nostri. Appesi ai rami volteggiavano abiti maschili color tramonto, abiti femminili profondi come oceani e abiti Noikoì7 Noikoì termine che definisce le persone Non Binary nella lingua Idraì, liberi come aria. Scelsi il mio, avvolsi il mio corpo rinato in un tessuto chiarissimo come il cielo,  mi sentii benissimo. Il femminile divenne finalmente mio, e io parte delle sue sconfinate derive.

«Ora posso tenerti io la mano, mi sembra di essere leggera come una nube».

Teuì mi sorrise e io potei finalmente vederlo.

«Certo siamo insieme. Non dobbiamo avere paura della leggerezza» mi rispose.

«Esatto. Mettere le ali vuol dire avere a disposizione tutto il cielo», ci indicò un Ilià. 

Il cielo ci sembrava così nostro adesso, avevamo nel corpo tutto il suo infinito, e mille nuove libertà ad attenderci.