home

manifesto

saggi e fabule

Fratture culturali. Uno sguardo alla queerness in Italia
Nicole Moolhuijsen,
Università di Leicester
Fra le molteplici sfaccettature dell’essere umano, le dimensioni del genere e della sessualità sono forse le più discusse e rivendicate nel dibattito pubblico e politico contemporaneo. Se da un lato le strutture di potere che regolano i comportamenti delle persone nella società, come lo Stato, le carceri e gli ospedali interpretano questi argomenti facendo perlopiù affidamento a una visione biologica essenzialista che normalizza e appiattisce le diversità in schemi binari escludenti, d’altro canto il pensiero queer è sempre più diffuso e visibile negli ambienti artistici e culturali a vari livelli. In Italia le proporzioni di questa frattura sono ingenti e si acuiscono se consideriamo che la cultura così detta dal basso fa propri i valori dell’agenda Transfemminista queer in maniera capillare mentre i luoghi della cultura alta, come musei, biblioteche e archivi, appaiono perlopiù in silenzio di fronte alla fluidità del presente.

Rispetto alle trasformazioni culturali legate a diritti civili fondamentali, come la libertà di autodeterminarsi e di tutelare i legami affettivi indipendentemente dal modello relazionale, è necessario posizionarsi. Da qui occorre partire per ripensare un modo di fare cultura in cui i diritti umani e i valori della giustizia sociale siano in prima linea. Oltretutto lo spirito radicale e i modi organizzativi propri di molte produzioni culturali orizzontali avrebbero la possibilità di smussare le rigidità dei linguaggi istituzionali. Nel 2010 l’artista britannico Matt Smith reinterpretava le collezioni artistiche permanenti del Birmingham Museum in chiave queer, sfidando i meccanismi curatoriali consolidati invitando i visitatori a leggere il patrimonio in relazione al genere e alla sessualità mediante nuove didascalie e installazioni. 

Nell’immagine sopra vediamo una scultura di Jacob Epstein esposta permanentemente al Birmingham Museum intitolata Lucifer. La statua presenta un volto femminile su un corpo maschile ed è stata coperta di garofani verdi dall’artista Matt Smith in occasione della mostra Queering the Museum. Fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo molti uomini gay indossavano questi fiori per indicare la propria omosessualità e nell’installazione di Matt Smith possiamo vedere come un elemento non binario (la presentazione di genere non-conforme della statua) diventa un pretesto per fare una riflessione più ampia di tipo storico e sociale. Infatti, il simbolo del garofano verde rimanda all’omonimo romanzo che raccontava elementi della vita fra Oscar Wilde e Lord Alfred Douglas e che venne utilizzato nel processo contro il noto scrittore dandy inglese che perse la vita durante la sua incarcerazione in quanto uomo omosessuale.

 Ecco che leggere un’opera d’arte o un oggetto in chiave queer significa innanzitutto mettere in collegamento diversi contesti incoraggiando più lenti interpretative. L’obiettivo non è unicamente quello di svelare l’omossesualità o queerness di artisti e personaggi storici, ma anche di sfidare la linearità e l’eteronormatività del pensiero dominante.  

Nell’ultimo decennio il dibattito scientifico e le sperimentazioni culturali volte a interpretare la queerness anche come proposta di metodo si sono diffuse ampiamente. Il Van Abbemuseum è un museo d’arte olandese con un programma permanente intitolato ‘Queering’ che mira innanzitutto a mettere in discussione la normatività mediante diverse azioni: bagni gender neutral, didascalie che si indossano sottoforma di abiti e che legano la collezione a temi LGBTQIA+, programmi permanenti di condivisione con le comunità in cui il sapere viene co-costruito in maniera collaborativa. Lo spirito queer va inteso soprattutto come azione continua di destabilizzazione verso ciò che comunemente viene definito come normale ma che in realtà è una convenzione escludente.

Ci sono istituzioni culturali che hanno un focus collezionistico e di ricerca permanente sui temi LGBTQ+ come l’archivio LGBTI Heritage di Amsterdam, lo Schwules Museum a Berlino e Queer Britain nel Regno Unito. Ciononostante, ogni realtà culturale può interpretare la diversità di genere e sessuale attraverso diversi media, dalle esposizioni permanenti, ai programmi per i visitatori, alle politiche di welfare interne al personale. I riferimenti alla diversità di genere e sessuale abbondano nelle collezioni archivistiche, bibliotecarie e di oggetti di moltissime istituzioni poiché queste dimensioni hanno una natura culturale, storica e sistemica.

Credo sia difficile immaginare un museo o una collezione senza alcun riferimento al genere e alla sessualità, il problema è che queste dimensioni vengono spesso tralasciate come fossero dei taboo, o ancor peggio date per scontate da una prospettiva etero-cis normativa. La visione biologica riduzionistica va superata e la cultura può sicuramente aiutarci a fare un salto di qualità nel dibattito che riguarda questi argomenti. Il paradosso che viviamo in Italia è che mentre artistɜ riflettono in maniera accesa sulla queerness toccando argomenti che riguardano la vita delle persone della comunità e attorno a cui ruotano minacce serie dal punto di vista della tutela dei diritti umani e civili, le istituzioni culturali appaiano perlopiù immobili come in una sorta di limbo. O forse qualcosa sta cambiando? Vorrei ripercorrere qui alcune pratiche che ho osservato e a cui ho collaborato perché penso possano mettere in luce alcune possibilità di azione. 

Al Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna è in corso una mostra sull’Agenda 2030, un programma di sviluppo promosso dall’ONU che promuove la sostenibilità e obiettivi di giustizia sociale come la parità di genere (all’obiettivo 5).nziché affrontare l’argomento in una chiave squisitamente binaria, come fa l’agenda programmatica delle Nazioni Unite, in mostra sono inseriti riferimenti alle politiche europee per i diritti LGBT. La categoria di genere viene quindi mostrata da una prospettiva che potremmo definire fluida proprio perché varia nel tempo a seconda della cultura. L’archeologia può infatti permettere di ricostruire e raccontare scenari molto diversi e culture in cui identità non binarie sono un patrimonio acquisito da molto tempo, come nel caso delle popolazioni native americane Two Spirit, che descrivono persone il cui ruolo è appunto considerato come un terzo genere ricco di sfumature non riconducibile né all’idea di uomo/maschio né di femmina/donna. “I concetti di uomo e donna sono categorie sociali, non biologiche” si legge in una delle didascalie. Questo aiuta a mettere in prospettiva credenze consolidate e a concepire il genere come un ventaglio di sfumature. La sezione di Scienze Naturali, letta in chiave culturale, aiuta a rinforzare questi messaggi riconoscendo che anche la medicina e le scienze non sono discipline neutrali e oggettive. Basti pensare, per esempio, che sino al 1990 l’OMS descriveva l’omosessualità come una malattia mentale o che sino a non molto tempo fa ai bambini intersessuali veniva imposta una riattribuzione chirurgica del sesso solo perché quei corpi non si conformavano agli schemi dominanti M/F. La sessualità, come si legge nei pannelli che affiancano gli oggetti, è una sfera molto complessa in cui la componente del piacere ha un ruolo fondamentale. Riconoscerlo serve a sfatare molti miti che descrivono alcuni stili di accoppiamento più naturali di altri, indipendentemente dal fatto che almeno 1500 specie di esseri viventi abbiano rapporti con esemplari dello stesso sesso. Credo che la mostra ora in corso a Montebelluna possa costituire un momento importante di riflessione per la museologia italiana nell’approccio alle tematiche queer proprio perché mette in crisi un modo diffuso di affrontare questi argomenti in cui la visione oggettiva e scientifica viene contrapposta a quella culturale e relativa. L’altro aspetto d’interesse risiede nel fatto che la mostra è stata pensata soprattutto come strumento educativo per un pubblico scolastico e per la comunità locale. Il museo quindi esplicita che trattare questi temi è una questione di responsabilità sociale alla luce delle sfide attuali e future.

Le modalità per interpretare la cultura queer sono svariate. Samuele Briatore, con Il Comune di Milano e la Fondazione Scuola Patrimonio, ha sviluppato in tempi recenti un progetto che ha visto il coinvolgimento di moltissime associazioni LGBTQ+ del territorio per narrare le collezioni in chiave autobiografica e queer. Il risultato è raccolto in un catalogo dove le memorie e storie personali di alcune persone queer vengono offerte ai visitatori come nuovo strumento di approccio ai contenuti. Al Mudec è in corso sino a fine luglio 2023 una personale dell’artista attivista Muholi, dove per mezzo del ritratto e dello scatto fotografico viene fatta una denuncia sociale sull’oppressione sessuale e di genere in chiave intersezionale, mettendo in primo piano i temi della blackness e della discriminazione razziale. Infine, vorrei ricordare come alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia un apparato didascalico rinnovato racconta in maniera permanente i costumi di genere nella Venezia del Settecento, aldilà del binarismo e del conformismo sessuale. Questa nuova narrazione è stata promossa nell’ambito di un nuovo apparato didascalico dove gli oggetti, gli ambienti e le opere d’arte sono il pretesto per raccontare storie e curiosità relative alla vita sociale, sia pubblica sia privata, creando connessioni con l’attualità. 

Questi esempi fanno capire come il patrimonio culturale sia naturalmente intriso di riferimenti al genere e alla sessualità e di come nuovi sguardi possano fornire lenti di lettura aggiuntive. Oltretutto è importante prendere consapevolezza della dimensione politica di questi temi riconoscendo come i costrutti di genere, identità sessuale, famiglia siano oggetto di regolamentazioni e oppressioni.

Oggi le riflessioni più vivaci e socialmente impegnate provengono dal mondo dell’attivismo e della produzione culturale dal basso. Istituzioni come università, musei, biblioteche e archivi devono acquisire coraggio e competenze per intervenire su questi aspetti con sensibilità e spirito civico. Il rischio è che contenuti culturali di alta qualità non entrino mai nel discorso pubblico. Occorre stringere nuove alleanze, riconoscere il valore delle contaminazioni fra linguaggi e contesti culturali diversi con l’obiettivo di valorizzare il potenziale trasformativo della cultura queer in maniera più capillare e visibile anche nei luoghi solitamente restii a prendere posizione nel dibattito pubblico.