What’s in my purse?
Dal Museo Travesti del Perú a documenta 15 per riflettere su una curatela contro-egemonica
Alessia Baranello
Filosofa, curatrice, attivista e artista, Giuseppe Campuzano (1969-2013) sfida alla fine degli anni Ottanta, la percezione pubblica dell’intellettuale presentandosi in drag agli opening di gallerie e musei peruviani. Porta con sé una boîte-en-valise, una pochette argentata contenente scritti, immagini e oggetti accumulati dall’infanzia, «una rivoluzione portatile sul punto di scoppiare»1M.A. López, “Museo, musexo, mutexto, mutante: la máquina travesti de Giuseppe Campuzano”, «Guggenheim Blogs», 9 luglio 2014, https://www.guggenheim.org/blogs/map/museo-musexo-mutexto-mutante-la-maquina-travesti-de-giuseppe-campuzano-2, trad. nostra. , per poi trasformarsi nel Museo Travesti del Perú (MTP).
Museo itinerante, archivio performativo, luogo di riscrittura fictionale della storia, il Museo Travesti si è mosso tra Lima, Bogotá, São Paulo, Bruxelles e Madrid con una collezione che spaziava tra platforms, ritagli di giornali, sculture e pitture di artist3 peruvian3, ex voto, documenti coloniali spagnoli, antiche coreografie e danze contemporanee. Nelle parole di Miguel A. López, curatore, intellettuale e voce di riferimento per la stesura di questo testo, il MTP ha così costituito un’inedita «archeologia visiva, storica e filosofica»2M.A. López, Il Museo Travestito, in AA.VV., Utopian Display. Geopolitiche curatoriali, (a cura di) Marco Scotini, Quodlibet NABA Insights, Macerata 2019, p. 201. delle origini e degli sviluppi del travestitismo, rivendicando il potere fictionale e generativo dell’archivio storico.
Fondato nel 2003 a Lima, il MTP adotta, la prospettiva curatoriale dell3 travesti: «a fictional figure he – Campuzano – calls the ‘androgynous indigenous/mixed-race transvestite’»3G. Campuzano e M.A. López, “Reality can suck my dick, darling. The Museo Travesti del Perú and the histories we deserve”, in Visible – Workbook 2, 2013, https://www.visibleproject.org/blog/the-museo-travesti-del-peru-and-the-histories-we-deserve-by-giuseppe-campuzano-and-miguel-lopez/, p. 3. , dove quest3 da oggetto di studio, display e rappresentazioni, diventano il soggetto e la voce parlante del discorso curatoriale e museografico, aprendo una possibilità importante, quella di «appartenere e rimanere nel museo non trasformando l3 travesti in arte moderna o feticcio esotico»4G. Campuzano, a cura di M.A. López, interviste di R.M. Motta and J.G. Chueca, Saturday Night Thriller y Otros Escritos 1998-2013, Estruendomudo, Lima 2013, p. 67, trad. nostra. . La parola travesti, per l’intellettuale transfemminista Malú Machuca Rose iscrive sui corpi dell3 fruitric3 e sulle opere un cambio di paradigma che riguarda il posizionamento rispetto allo sguardo coloniale, appropriazionista e desessualizzante, che è, in ultimo, quello di un certo tipo di pratiche artistiche e museali5M.M. Rose, “Toward a Travesti Methodology for Critique, Care, and Radical Resistance”, in TSQ: Transgender Studies Quarterly, Giuseppe Campuzano’s Afterlife, Volume 6, Number 2, Duke University Press, Durham maggio 2019, https://doi.org/10.1215/23289252-7348524, p. 242, trad. nostra. . Travesti è qui un metodo per vivere il presente dell’arte tanto quanto per navigare attraverso il passato.
Alla stregua del più famoso berdache, il termine viene, infatti, utilizzato per primi dai colonizzatori spagnoli ed è prodotto emblematico dello sguardo semplificatorio del colonizzatore che si scontra con uno spettro di identità di genere e sessualità molto più ampio rispetto a quello del cattolicesimo europeo. La riappropriazione della parola travesti, traslata a soggetto curatoriale e del display, piuttosto che a oggetto etnografico e di studio, lavora, come per Lorenz fanno le «radical drag»6Il volume a cui si fa riferimento è R. Lorenz, Queer Art: a Freak Theory: 2, transcript Verlag, Bielefeld 2012. dove Lorenz teorizza una “freak theory of contemporary art” basandosi su pratiche di esposizione e display marginali come i freak show. Una breve ricognizione dei temi espressi nel volume si può trovare in R. Lorenz, 7 Methods of a Freak Theory of Contemporary Art, in AA.VV., Kiss My Genders, catalogo mostra, a cura di Vincent Honoré, Hayward Gallery Publishing, 2019, pp. 66-77., al tracciamento di divers3 soggett3 artistici, nel riscoprire modernità differenti da quella eteronormativa e occidentale, rivendicando la propria indipendenza dai regimi di visibilità e integrazione dell’arte dei dupes7«Coloro che appartengono ai gruppi sociali dominanti e che tendenzialmente stabilivano le dinamiche di forza riguardanti la cultura sono adesso esclusi dalla loro posizione di vantaggio. I “dupes” (i “gonzi”), coloro che ora non sanno, rappresentano adesso l’Altro. I raggiratori e gli insiders, perpetuano dinamiche escludenti rispetto alle conoscenze che condividono, assumendo quindi le funzioni tipiche dei gruppi di maggioranza e dominanti […] In questo processo, quindi, non solo la posizione di “conoscitore” e “oggetto della conoscenza” vengono invertite […] ma persino le categorie, i metodi di produzione culturale e la “lettura” dei corpi vengono contestati. Questo, ovviamente, è un processo che sfila un certo tipo di “conoscenza” da sotto i piedi di tali “gonzi”» R. Lorenz, 7 Methods of a Freak Theory of Contemporary Art, in AA.VV., Kiss My Genders, op. cit., p. 69-70. . Sempre Rose contrappone travesti a trans, sottolineando come il primo permetta di situarsi – alla maniera di Haraway8Con conoscenza situata Donna Haraway indica quella conoscenza che riflette la prospettiva particolare di colei che conosce, per cui risulta sempre parziale e non spinge per essere considerata l’unica verità o per dominare su altre narrazioni. – nella cultura peruviana. D’altra parte «l’utilizzo della parola trans in Perú come termine ombrello» nasce, nell’opinione di Rose, «dal bisogno di essere visti, legittimati e, soprattutto, sostenuti all’interno del Nord Globale […] da un sistema neoliberale e capitalista» che sradica la località: «In opposizione all’universalità del termine trans, travesti […] è un termine che ha una classe sociale e fa riferimento a un’etnia specifica: significa, per esempio, che non puoi presentarti come una donna tutto il tempo perchè non puoi permettertelo economicamente»9«Significa che l’uso delle tecnologie corporee per trasformare il proprio corpo non viene da uno studio medico […] si diventa creativi, si usano penne al posto dell’eyeliner, si comprano gli ormoni e i siliconi dai propri amici in modo clandestino» M.M. Rose, “Toward a Travesti Methodology for Critique, Care, and Radical Resistance”, TSQ: Transgender Studies Quarterly, op. cit., p. 242. .
Mentre la teoria queer educata ed edulcorata dall’Accademia rivendicava la figura della persona transgender o genderqueer, bianca e occidentale, come meritevole di essere inclusa e accettata dal sistema eteronormato, facendo leva sul mito del progresso e sulla desessualizzazione della lotta sessuale, il MTP si rifaceva alle connessioni con gli antenati andini, con le danze ancestrali peruviane e con riti e pratiche religiose apocrife permanentemente iscritte nel travestitismo del Perú. D’altronde, come scrive l’artista Amrou Al-Kadhi, le narrazioni ufficiali sulla liberazione sessuale mancano di riferimenti a identità di genere non normate al di fuori del panorama e della storia occidentale: gli Hijra nell’Asia Meridionale, in particolare in India, o, ancora, gli Yoruba in Nigeria e le culture nativo americane che riconoscevano multiple e trasversali identità di genere e ruoli sociali fuori dal binarismo Occidentale10Sullo stesso tema si era espresso anche Campuzano: «Le odierne battaglie legali per il riconoscimento dell’identità transessuale sono soggette alla normatività di genere e la riproducono. Anche le società più progressiste, come il Belgio, la Germania, il Regno Unito e la Spagna, non riescono a considerare valida l’autoespressione di un genere ambiguo. Sebbene in questi Paesi le persone abbiano ottenuto alcuni diritti per cambiare sesso, non hanno ancora il diritto di scegliere di rimanere in uno stadio intermedio o di passare più di una volta tra i generi stabiliti. Concetti come “disforia di genere” o “disturbo dell’identità di genere” vengono utilizzati per giustificare le operazioni di riassegnazione di genere e il riconoscimento legale del sesso modificato. Tuttavia, questi concetti sono essi stessi ancorati alla normatività di genere, negando intersessualità e travestitismo occasionale» in G. Campuzano, a cura di M.A. López, interviste di R.M. Motta and J.G. Chueca, Saturday Night Thriller y Otros Escritos 1998-2013, Estruendomudo, Lima 2013, p. 136, trad. nostra. Si riporta testo integrale in lingua originale: «Las batallas legales de la actualidad en torno al reconocimiento de la identidad travesti están sometidas a la normatividad de género y la re producen. Incluso las sociedades más progresistas, como Bélgica, Alemania, el Reino Unido y España, no alcanzan a validar la auto-expresión de género ambigua. Si bien en esos países las personas han logrado ciertos derechos para cambiar de sexo, todavía no tie- nen derecho alguno a elegir quedar- se en un estadio intermedio, o para transitar más de una vez entre los gé- neros establecidos. Conceptos como “disforia de género” o “trastorno de la identidad de género” se utilizan para justificar las operaciones transexuales y el reconocimiento legal del sexo mo- dificado. Sin embargo, estos conceptos están en sí mismos anclados en la nor- matividad de género, negando el inter- sexualismo y el travestismo ocasional». :
«I principali studi storici dell’arte collocano la sovversione di genere nei movimenti occidentali per i diritti civili degli anni ’60-’80, con l3 performance artist bianch3 al centro della scena. […] La posizione dell’Occidente come inventore della sovversione di genere equipara la bianchezza e il secolarismo a forme d’arte progressiste come le performance drag. È proprio questa equazione che può lasciare l3 artist3 drag con background non occidentali e/o di un credo diverso da quello cattolico in una sensazione di frattura».11 «Mainstream art-historical surveys situate gender subversion in the Western civil rights movements of the 1960s to 1980s, with white performance artists taking centre stage. […] The positing of the West as the inventor of gender subversion equates whiteness and secularism with progressive art forms like drag. It is precisely this equation that can leave drag artists with non-Western and/or religious backgrounds feeling fractured». A. Al-Kadhi, Queer Reclamations: How Drag Splits and Rebuilds the Self, in AA.VV., Kiss My Genders, op. cit., p. 52
La figura dell3 travesti è, pertanto, una figura antisociale, che non scende a patti con le narrazioni ufficiali sulla liberazione sessuale e non desidera mediare o spingere verso l’integrazione e la cannibalizzazione di pratiche subalterne sotto termini e rappresentazioni “ombrello”, ma si pone in quelli che Anzaldua definirebbe borderlands12G. Anzaldua, Borderlands / La Frontera: The New Mestiza, Aunt Lute Books, San Francisco 2012 [1987]., i confini, tra lo stato nazione e le identità subalterne, tra l’estetica glamour delle drag race e la storia del Perú prima della colonizzazione. Soprattutto, è una figura situata temporalmente, culturalmente e storicamente in una lotta materiale e viva, quella contro il Perú dittatoriale e violento di Fujimori13 «Lo scenario di violenza dittatoriale fu costruito attraverso la spettacolarizzazione dei corpi femminili seminudi, amplificati nei tabloid – giustamente il ricercatore Robin Kirk quando descrive il Perù lo chiama il “paese delle natiche” – parallelamente a spezzoni televisivi con atti di coercizione e maltrattamenti in pubblico contro le donne e la comunità LGBTQ+, perpetrati nella più completa impunità dalle alte sfere del potere, come le torture inflitte all’allora moglie del presidente Fujimori. Nel 1992, l’allora First Lady Susana Higuchi, raccontò di essere stata rapita, rinchiusa e torturata nella sede dei servizi di spionaggio dell’esercito per rappresaglia, in quanto aveva riferito di atti di corruzione ascrivibili al governo del marito». M.A. López, Il Museo Travestito, in AA.VV., Utopian Display. Geopolitiche Curatoriali, op. cit., p. 202., da un lato, e, dall’altro, quella delle rivendicazioni decoloniali, non solo rispetto all’invasione della terra, ma soprattutto, in relazione all’invasione dei soggetti culturali, dei corpi e delle pratiche sociali.
Se è assodato che oggi, un museo, per dirsi contemporaneo, ha bisogno di focalizzarsi su identità, memorie, sulla loro esposizione e – nel migliore di casi – autorappresentazione, va detto che spesso questi spaccati tranciano i legami tra correnti di pensiero e lotte materiali, rischiando di museificare anche queste identità e memorie, e farle diventare astoriche, senza tempo, in una capitalizzazione del surplus intellettuale della resistenza. È il caso, per Amselle, degli “oggetti disobbedienti” al Victoria and Albert Museum14J-L. Amselle, Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi, Meltemi Editore, Sesto San Giovanni 2017. . Per Mellino, si tratta della spoliticizzazione – da parte delle macchine accademiche europee – delle lotte di indipendenza nelle ex-colonie, con il rischio che il portato delle rivendicazioni decoloniali diventi un’appendice del sistema15M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo, e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Meltemi Editore, Sesto San Giovanni 2021.. In Italia, ad esempio, La Quadriennale d’Arte che nella scorsa edizione ha preso il titolo de Il Fuori, emblematico giornale della resistenza omosessuale e antisociale italiana, senza che le istanze e la produzione delle numeros3 gionalist3 e attivist3 legate al giornale fosse citata16https://www.palazzoesposizioni.it/mostra/quadriennale-darte-2020-fuori. . E ancora, la performance ideata da Alex Cecchetti con le gonne ispirate a quelle dei Dervisci rotanti, prodotte da Laura Biagiotti, uno dei nomi più conosciuti della moda italiana17«Invitati a camminare all’indietro in un giardino o ad indossare gonne per ballare come dervisci seguendo la musica delle frequenze dei pianeti del sistema solare, gli spettatori non sono più confinati solo al ruolo di osservatori» La performance faceva parte degli Episodi, un programma ideato da Cecchetti per accompagnare la mostra Sortilegio presso FOROF (Roma, 2022-2023), dove l’artista riporta quello che definisce “un ambiente sciamanico”. https://www.forof.it/site-specific .
Questi sono solo alcuni tra gli atti di staging che ricordano l’etno-fiction di Mead e Bateson, i due antropologi che a Bali facevano ripetere danze e riti di possessione, dove gli astanti erano nudi, di notte, lontani dalle città, a dei simulacri degli stessi, riportati in un contesto apollineo, spogliati di ogni elemento perturbante e rivestiti di abiti “esotici”. Se per Campuzano era fondamentale dichiarare quanto il dispositivo-museo fosse stato un dispositivo sessuale18M.A. López, Il Museo Travestito, in AA.VV., Utopian Display. Geopolitiche Curatoriali, op. cit., p. 206. , riconoscendo, quindi, il ruolo della museografia, dell’archivio e delle pratiche artistiche nella strutturazione e nel mantenimento delle norme del decoro e di regimi visuali escludenti; i più recenti sviluppi nella museologia legati agli studi culturali, al pensiero queer e agli studi di genere, hanno sicuramente permesso un’estensione dello sguardo. Dovremmo domandarci però a che prezzo e alle condizioni di Chi è stato ottenuto l’accesso agli spazi “preposti” all’esposizione.
Sempre l’antropologo francese Amselle ne Il Museo in Scena (2017) si chiede quanto il decentramento fisico, culturale e concettuale del museo contemporaneo non trovi proprio il suo limite nel fatto che l’operatore dell’universalizzazione, l’operatore dell’annessione continui a essere il centro, fulcro della leggittimazione di pratiche controculturali provenienti dai margini della cultura dominante. Ci chiediamo quanto l’arte contemporanea, nella ricerca di micro-storie dell’Altr3 culturale, spesso sfoci nell’appropriazione e nella mistificazione di processi e discorsi dell’Altr3 sotto la patina dell’”inclusione”. E ancora, quanto la sessualità sia stata liberata (o meglio liberalizzata)19H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 91. dal centro per traslarla in forme socialmente costruttive, dove l’immaginario della controcultura possa partecipare facilmente alla creazione capitalista di plusvalore.
Il cross-dressing, e, più in generale, l’estetica queer della maschera, del camouflage, della posa, al pari delle maschere autoctone nei musei etnografici, vengono spesso fermate, nel contesto mostra, in una temporalità galleggiante: un presente astorico dove manufatti funzionali, il cui uso è variato nel tempo in base alle necessità della lotta e della contemporaneità, appaiono spogliati dalle loro funzioni sociali e accostati all’arte primaria o al folklore. O ancora, rivisitati da artist3 che nulla hanno a che fare con queste pratiche.
Il MTP recupera e mostra, invece, la funzione sociale e storica avuta dal travestitismo in Perú, la possibilità tramite il falso, il trucco, la gestualità e la posa di assumere diverse facce storiche e dialogare con gli antenati peruviani. Campuzano non si presenta, perciò, come una curatrice ma come una sciamana queer del museo, soggetto mediatore di nuove alleanze tra la comunità transgender e i nativi20M.A. López, Il Museo Travestito, in AA.VV., Utopian Display: Geopolitiche Curatoriali, op. cit., p. 205., sottolineando il legame, per esempio, tra le maschere e i travestimenti utilizzati nella tunantada, un’antica danza peruviana volta inizialmente alla ridicolizzazione dei colonizzatori spagnoli, con altre pratiche di resistenza allo status quo eteronormato, come quelle delle ballroom e delle reading challenge. Un corpo in posa, un corpo in maschera è, nel MTP, un corpo che prende coscienza della possibilità di dialogare con la storia e riscriverla performativamente21Qui è utile riferirsi al discorso portato avanti da Manuel Segade sulla differenza tra posa e gesto nelle performance drag: «I gesti sono appresi, legittimati e codificati […] attribuiti a un genere, a una razza, a una classe, e sono naturalizzati all’interno di un contesto storicamente definito. […] Posare, invece, […] vuol dire appropriarsi del gesto di un altro – un gesto antecedente appartenente a un momento passato – per mimare in modo asincrono un altro corpo, per un istante […] Una drag queen entra in scena interpretando Madonna e cinque minuti dopo torna come Dalida o Aretha Franklin». Per Segade la posa non nasce come segno di appartenenza a un’identità cristallizzata e fissa nel tempo ma volge a frammentare la stessa. M. Segade, To Strike a Pose is to Pose a Threat in AA.VV., Kiss My Genders, op.cit., p. 56, trad. nostra. .
Non a caso, pratiche e espressioni quali la tunantada sono rintracciabili in numerose zone del mondo soggette alla violenza espropriativa coloniale, e, quindi, parte attiva nella costruzione di nuove storie, in contrapposizione alle narrazioni egemoniche.
In Les Maîtres Fous (1955) Jean Rouch, cineasta e antropologo francese, ce ne propone una, documentando un rito di possessione degli songhai che dal Niger sono migrati ad Accra per trovare lavoro nelle miniere, come garzoni o, nel caso delle donne, come prostitute. Il film si apre con un viaggio domenicale fuori dalle mura cittadine per performare il rito; i primi spiriti, detti Hauka, prendono possesso degli astanti. Il caporale di guardia, il comandante, il generale come anche la locomotiva, la moglie del dottore o il produttore di camion: ciascuno di loro rappresenta un personaggio dello stato maggiore dell’esercito britannico, che, una più forte resistenza verso le forze coloniali, intorno al 1925, aveva fatto aggiungere al già ricco pantheon di spiriti songhai22«Tutto cominciò durante una danza di ragazze e ragazzi. Nel corso della danza una donna soudye, Zibo, che era sposata con uno sceriffo Timbuctu, iniziò a essere posseduta da uno spirito. Le chieserero chi fosse. Rispose: “Sono Gommo Malia [Governatore del Mar Rosso]”. La gente disse che non conosceva questo spirito. Poi altri vennero e presero i corpi di altri ragazzi. Anch’essi pronunciarono i loro nomi, e la gente non li conosceva. Gli spiriti dissero: “Siamo gli Hauka, gli ospiti di Dongo”. Questo fatto accade a Chikal, molto vicino a Filingue. Qualche giorno dopo tutti i ragazzi e le ragazze di bilingue erano stati posseduti dagli Hauka». Rouch, cit. in P. Stoller, The Cinematic Griot. The Ethnography of Jean Rouch, The University of Chicago Press, Chicago-Londra 1992. . La crisi di possessione ha, qui, un effetto catartico che permette agli songhai di integrarsi in una nuova vita preservando un equilibrio psichico della propria personalità23Il commento finale di Rouch al documentario recita: «Se questi uomini d’Africa non abbiano forse scoperto dei rimedi che permettano loro di non essere degli anormali, ma di mantenersi perfettamente integrati nei loro ambienti, dei rimedi che noi [occidentali] non conosciamo ancora». (Rouch, cit. in C. Pennacini, Filmare le culture. Un’introduzione all’antropologia visiva, Carocci Editore, Roma 2005, p. 123.), e si colloca tra i numerosi rituali, non antichi ma nati con il colonialismo, volti alla cura dallo shock prodotto dallo stesso24Nell’analisi di Les Maîtres Fous e, più in generale, del lavoro di Jean Rouch è stato fondamentale il contributo dell’antropologo Andrea Staid e del suo corso di Antropologia Visuale in NABA – Nuova Accademia di Belle Arti. : «Il rito contiene […] una sua potente forza eversiva, espressa nella dimensione del ridicolo, oltre che del paradosso, con cui gli ufficiali coloniali inglesi vengono descritti»25C. Pennacini, Filmare le culture. Un’introduzione all’antropologia visiva, op.cit., p. 124..
Travestirsi da vergine per Campuzano (in La Virgen de las Guacas, 2007) ha la stessa funzione del travestirsi da colonizzatore per gli songhai, nel momento dell’esclusione della comunità LGBTQIA+ dai culti religiosi cristiani26In questo senso, è fondamentale citare la presenza all’interno della collezione del MTP di santi non ufficiali e popolari quali Sarita Colonia, santa popolare peruviana, mai riconosciuta dalla chiesa cattolica, a cui le classi più povere e marginalizzate del paese hanno dedicato nel tempo ex voto. E ancora, una tendenza alla drammatizzazione sessuale e politica della devozione cattolica viene rintracciata da Lopez tra divers3 artist3 dell’America Latina. M.A. López, “Queer Corpses: Grupo Chaclacayo and the Image of Death”, e-flux Journal Issue #44, aprile 2013, https://www.e-flux.com/journal/44/60146/queer-corpses-grupo-chaclacayo-and-the-image-of-death/. Qui sempre López ci rimanda alla Virgin of Guadalupe di Monica Mayer (1970) o ancora al Grupo Chaclacayo (1983-1994).. Maschere, danze, pose e possessioni sono, in ultimo, rituali di non-accettazione, di presa in giro e ridicolizzazione della colonizzazione storica, culturale e sessuale dei corpi e vanno mantenuti tali nelle loro riproposizioni espositive e museali, invece che resi celibi come gli oggetti dissidenti al Victoria and Albert.
Non solo travestirsi, ma “travestire il museo” e non esserne travestiti: significa non permettere l’appropriazione di processi, punti di vista e spazi culturali da parte del Museo Contemporaneo, ma rivendicare un’appropriazione dello stesso, una queerizzazione delle pratiche museali, piuttosto che una museificazione delle pratiche queer di margine. Per Lorenz si tratta di riscrivere una teoria e una storia dell’arte ripartendo dai freak show e altre modalità espositive – tanto quanto epistemologiche – subalterne27Per la definizione e l’uso di subaltern3 si veda G. Spivak . L’uso di “subalterno” e “marginale” nel testo riferisce sempre i termini a uno status quo che li vuole subalterni e marginalizzati. , poiché queste richiedono dei sistemi nuovi per essere lette, esposte, discorse, e, quindi, impongono al museo di cambiare le proprie modalità28R. Lorenz, Queer Art: a Freak Theory: 2, op.cit.. Che la si chiami curatela queer, anti-istituzionalità o curatela post-coloniale: queste istanze non implicano che ad essere esposte siano opere prodotte dalla comunità LGBTQIA+ o ad essere trattati siano temi legati alla decolonizzazione, seppur questo è auspicabile. Non basta che sia consentita la partecipazione a forme di espressione e atti di creazione, in un dialogo imposto tra il centro e i gruppi marginalizzati, ma è necessario che quest’ultimi non rimangano esclusi dai regimi di proprietà della produzione culturale e storica, come, invece, accade nei numerosi e infiniti casi di valorizzazione capitalista e esclusivamente nominale di pratiche subalterne (rispetto allo status quo culturale, sociale, sessuale).
Per questo una curatela queer, una musealità alternativa è rintracciabile, più recentemente, nell’ultima edizione di documenta, una delle più importanti rassegne d’arte contemporanea in europa, ed, in particolar modo, nell’uso da parte del collettivo artistico Ruangrupa – a cui è stata affidata la curatela – dei finanziamenti del Nord Globale (in questo caso Kassel)29Nelle parole di Elvira Vannini, documenta 15 ha prodotto il dubbio e non il benessere, non ha mostrato al colonizzatore bianco opere facilmente “esocitizzabili” o che somigliano alla Sua storia dell’arte, in un momento in cui era facile cadere in un discorso stantio sul genere o la razza, i nuovi monopoli – sempre per Vannini – del discorso artistico sul contemporaneo. Per le considerazioni di Vannini su Documenta 15 si rimanda a E. Vannini, “documenta 15, una mostra di rottura. L’opinione di Elvira Vannini”, «Artribune», 28 giugno 2022, https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2022/06/documenta-15-opinione-elvira-vannini/; E. Vannini, “Venezia-Kassel: i capricci dei manager e l’ordine dei sovversivi”, «HotPotatoes», 24 febbraio 2022, http://www.hotpotatoes.it/2022/02/24/venezia-kassel/ e AA.VV., “Documenta 15 – Una riflessione collettiva. Parte 2”, «ATP Diary», 22 dicembre 2022, https://atpdiary.com/documenta-15-una-riflessione-collettiva-2/. .
Leggendo il catalogo si comprendono, infatti, misure e scopo del progetto, soprattutto quando si contano l3 partecipanti. Oltre agli iniziali quattordici gruppi, si aggiungono l3 contributor, per arrivare a più di cinquanta presenze. Collettivi artistici, individui, gruppi di attivist3 e progetti sociali dal Sud Globale, hanno beneficiato, grazie alla curatela robin-hood dei Ruangrupa, dei fondi di Kassel, in quella che non esageriamo a definire una rivendicazione di una massa di produttric3 invisibili nel mondo dell’arte; coloro che mandano avanti un intero sistema da dietro le quinte, le cui pratiche partecipative e sociali e le cui espressioni estetiche sono state più volte fonte di appropriazione, ispirazione e furto per l’arte Occidentale.
Eppure, quello che Sholette definisce “northsplaining” ha fatto perdere una conversazione critica intorno alla sostanza di documenta 15 e alle opere esposte, relegandole, nuovamente, a un contesto di folklore, non annettibile, in nessun punto, alla timeline della storia dell’arte occidentale.30G. Sholette, “A short and incomplete history of ‘bad’ curating as collective resistance”, «e-flux Criticism», 21 settembre 2022, https://www.art-agenda.com/criticism/491800/a-short-and-incomplete-history-of-bad-curating-as-collective-resistance. Di fronte alle opere di Taring Padi31 https://www.taringpadi.com/?lang=en. , si è detto che queste ricordavano qualcosa di già fatto in occidente, e, in Italia, da Piero Gilardi, come per depotenziarne il valore nelle lotte di student3, attivist3 e artist3 a Yogyakarta. Allo stesso modo, in relazione alla performatività collettiva nello spazio espositivo del Museo Travesti, si potrebbero citare le varie espressioni europee di arte relazionale, tracciate alla fine dei Novanta da Bourriaud. E, ancora, il museo nomade si potrebbe relegare a un’esposizione di oggetti popolari ritrovati.
Quello che verrebbe considerato a pieno titolo arte contemporanea se fosse prodotto nella normatività occidentale, viene, in questi casi, relegato al mercato turistico, all’arte popolare o all’artigianato: pratiche esotiche a cui ci si può ispirare e che possono essere riportate nel museo solo da alcune soggettività, come nel caso degli Episodi di Cecchini32G. Germana e A. Bowman-McElhone, “Asserting the Vernacular: Contested Musealities and Contemporary Art in Lima, Peru”, in Arts 9, no. 1, 7 febbraio 2020, https://doi.org/10.3390/arts9010017. . Si tratta, in sintesi, di delegittimare queste pratiche in quanto “arte” e, insieme, spogliarle della loro funzione sociale, riportandole sulla linea temporale ed estetica occidentale che pretende di giudicarle da un punto di vista esclusivamente espressivo e stilistico, su quei canoni artistici costruiti da un occidente normativo. Per i Ruangrupa «Esistono diversi metodi e pratiche di produrre arte (opere)» e «invece di forzare l’”inclusione” di diversi modelli di produzione in ciò che già esiste, queste dovrebbero agire come una serie di atti di rimodellamento e gettare i semi per cambiamenti futuri».33«There are different ways and practices of producing art (works). These practices are not (yet) visible, as they do not fit the existing model of the global art world(s). documenta fifteen is an attempt to clash these different realities against each other, showing that different ways are possible. Instead of fitting these various models of production into what exists already, it should act as a series of acts of reshaping and sow seeds for more changes in the future. […] artworks that are functioning in real lives in their respective contexts, no longer pursuing mere individual expression […] Other ways are possible. In this way, we are resisting the domestication or taming of these different practices». Ruangrupa, Documenta Fifteen: Handbook, Hatje Cantz Verlag Gmbh & Co Kg, Stoccarda-Berlino 2022. p. 17.
La pochette o il lumbung: si tratta alla fine di sporte alla maniera di Le Guin34Nel testo The Carrier Bag Theory of Fiction (1986), Ursula K. Le Guin, prendendo le mosse dagli studi dell’antropologa Elizabeth Fisher, rivela che la prima tecnologia inventata dall’uomo non fu un’arma per cacciare, bensì una sporta per raccogliere e trasportare il cibo. Testimonia, così, come il primo prodotto umano non sia stato un dispositivo di dominio e prevaricazione sul territorio e sulle specie, ma un contenitore per la coesistenza e la raccolta di diverse narrazioni e mondi, un assemblaggio trasportatore di significati, una favola che si contrappone ai miti individualistici degli eroi, spostandosi verso una polifonia di voci. U.K. Le Guin, The Carrier Bag Theory of Fiction, Ignota Books, 2019., borse e sacche per la coesistenza e la raccolta, nelle quali è utile guardare per comprendere che una curatela contro-egemonica, non può essere solo una curatela tematica ma deve essere una posizione metodologica su «come i musei collezionano, chi colleziona e cosa si colleziona»35F. Godoy, G. Campuzano, “‘Travestirme de Museo para Travestir al Museo’: Entrevista a Giuseppe Campuzano”, arara No.11, 2013, https://it.scribd.com/document/471390746/travestirme-de-museo-para-travestir-al-museo-entrevista-a-giuseppe-campuzano, p. 3..